1. America, Americae
È il 1992 e ho 16 anni. Con mio fratello abbiamo scoperto una band: si chiamano The Black Crowes. Quell’anno esce il loro secondo disco che si intitola “The Southern Harmony and Musical Companion”, un compendio di rock sudista, blues e soul, una roba a metà fra gli Stones e James Brown, fra Otis Redding e i Lynyrd Skynyrd. Usciamo completamente pazzi. Disco meraviglioso, pieno di musica e di vita.
Quando penso all’America penso a questo disco, al miracolo di una sintesi - in verità impossibile - fra la cultura afro-americana del blues e le chitarre elettriche seventies inglesi. America, Americhe, versioni differenti dello stesso copione, culture antitetiche che dopo una lotta durata secoli si mescolano. America, Americae, declinazioni diverse, sopraffazione e rispetto. Una terra di sogni e di contraddizioni, raccontata in lungo e in largo tanto che ormai un po’ ci annoia. In un certo senso la mia America è questa cosa qui: masticazione e digestione di un linguaggio, lontanissimo da me per cultura, lessico, grammatica eppure così vicino e intimo. La metrica piana e dolce dell’italiano che si appoggia su un incedere che proviene da un Altrove, un luogo altro, alieno che sento di conoscere a mena dito, forse anche meglio dei Cantautori italiani che hanno inventato il nostro modo di scrivere canzoni.
L’anno dopo, nel 1993, esce “August and everything after”, il primo disco dei Counting Crows, un’altra band americana che niente ha a che fare con i corvi di poco fa. È lì che capisco cosa significa scrivere una canzone. Quel poco che so fare nell’ambito del songwriting lo devo ad Adam Duritz che è il cantante e leader della band. E dire che non sono mai stato uno che racconta storie, uno storyteller come dicono gli americani, perché in italiano in un attimo ti trasformi nella versione sfigata di Guccini o di De Andrè. No, dei Counting Crows ho amato l’intimità del racconto, il modo di portare l’ascoltatore dentro una canzone.
Quando qualche anno fa mi capitò di dover aprire il concerto milanese dei Counting Crows (concerto che poi venne annullato per pioggia e qui ci vorrebbero le risate registrate come nelle sitcom anni ’80) conobbi Adam Duritz. Nel backstage parlammo per una manciata di minuti. Gli dissi che ero un suo fan e che “Anna Begins” è una canzone straordinaria. Che mi sorprendevo a sapere ancora a memoria tutto il testo di “Round Here”.
Probabilmente gli feci anche un po’ tenerezza, tanto che alla fine lui era dispiaciuto più per me che per l’annullamento del concerto.