4. Addio sogni di gloria
Così un giorno ho smesso di crederci. Ma ci avevo mai creduto davvero? Un amico produttore un giorno mi disse una grande verità: esistono due tipi di musicisti, quelli che vogliono fare musica e quelli che vogliono diventare famosi. Da quel giorno ho capito - retrospettivamente - che io non ho mai davvero voluto diventare famoso. Perché per diventare famoso devi scendere a patti col diavolo, nutrire il tuo ego, fare cose che non vorresti fare e soprattutto essere molto ambiziosi.
Ho un ricordo legato al mio primo gruppo, cantavamo le nostre canzoni ed era la fine degli anni ’90. La nostra manager ci propose di fare un live in una trasmissione pomeridiana su una rete privata (poteva essere Tele Lombardia). Quando arrivammo sul set e vedemmo il presentatore ricoperto di cerone annunciare la nostra esibizione con un’enfasi irreale sentimmo un brivido lungo la schiena, un misto di imbarazzo e paura. Non ho ricordo di ciò che avvenne dopo. Però ricordo perfettamente i miei pensieri: sono queste le cose che si fanno per portare la tua musica alle orecchie della gente?
Salto in avanti di molti anni. Siamo nel 2015 e mi hanno invitato a suonare due brani al leggendario Piper di Roma in occasione di un Contest musicale. In giuria c’è Mogol e altri addetti ai lavori. Fra gli ospiti - oltre a me - c’è pure una ragazza molto brava che aveva fatto (credo) X-Factor qualche anno prima. Sul palco si alternano giovani artisti. Un pezzo a testa, due parole di presentazione e via. Un’attesa di ore per tre minuti sotto le luci. Oltre al viaggio per Roma e ritorno a casa. Io bevo del vino scadente per ingannare l’attesa e intanto penso: perché? Cosa ci faccio qui? Ha un qualche senso tutto questo? Ecco, probabilmente una persona ambiziosa, affamata, approfitterebbe dell’occasione per attaccar bottone, stringere le mani a un po’ di persone in giuria, prendere contatti. Io invece me ne sto in un angolo. Penso a come fare i miei due pezzi, solo chitarra e voce, senza basi, a come reggere il confronto con gli altri che invece hanno un suono bello pieno e corposo. Mi domando se ha senso provare a coinvolgere il pubblico, fargli battere le mani o addirittura cantare.
Poi mi chiamano, è il mio turno. Mi gira la testa, non voglio suonare. Mi fa schifo questo posto, mi fa schifo questa gente. Ma ovviamente suono lo stesso e con ogni probabilità faccio pena. Prendo qualche applauso di circostanza e me ne vado in albergo col morale sotto le scarpe.
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