5. Applausi
Dopo tanti anni di palco cominci a riconoscere gli applausi. Distingui quelli di circostanza e quelli sinceri, quelli calorosi e quelli più freddi. Capisci se la gente è venuta lì per te o se è lì per caso. Capisci se tra quelle facce c’è qualcuno che in qualche modo stai raggiungendo, stai toccando come ama fare Nick Cave nei suoi show. In realtà cerchi quel tipo di contatto, ne hai bisogno perché ti permette di arrivare in fondo al concerto. Ma il punto è che fino a quando la gente non è disposta a pagare un biglietto per sentire le tue canzoni conta tutto molto poco. All’inizio sei giovane, hai la voce che trema, fai tenerezza. Il pubblico lo conquisti così. Ma poi? Quando hai una band alle spalle, devi noleggiare un furgone perché gli strumenti non ci stanno più, il comunicato stampa è infarcito di aggettivi altisonanti e il booking ha fissato una data a Lecce e il giorno dopo una a Bergamo. Cosa succede ora? Non hai alibi, non hai scuse. La gente vuole emozionarsi, vuole i brividi.
(O per lo meno voleva emozionarsi, voleva i brividi. Oggi i live, nella maggior parte dei casi, sono diventati dei grandi karaoke e ormai nelle storie di Instagram non si inquadra nemmeno più il cantante, si inquadra se stessi mentre si canta in mezzo al pubblico).
2016, sono a Lisbona e ci sono i Radiohead sul palco. Il biglietto è costato tanto, sicuramente più di sessanta euro. Certo è un festival, ci sono decine di live ogni giorno, però i Radiohead sono i Radiohead e molto del pubblico è lì solo per loro. Inizia lo show, e la gente parla, parla e parla. Beve la birra, dice cazzate, fa foto. Io stento a sentire il concerto, perché per altro in quel tour i Radiohead avevano deciso di tenere un volume molto basso, forse con l’illusione di creare un po’ di magia e di attenzione. Vana illusione, l’effetto ottenuto è l’opposto. È solo quando attaccano “Creep” che si sente un boato fragoroso. Ma la gente mica lo ascolta il pezzo. Ora la platea del Nos Festival, enorme, sconfinata, è una distesa di telefoni.
È così che mi immagino la fine della musica.
Credo che la sensazione più immediata che si prova leggendo o ascoltando il racconto di questo album sia quella della disillusione. Il che è in buona parte giusto, perché in effetti ho un approccio parecchio disilluso verso il mondo del cosiddetto music business, mondo che in tutta onestà in questi anni ho solo sfiorato. Al tempo stesso però negli ultimi tre anni ho riscoperto il piacere di fare musica, di scrivere canzoni, di arrangiare, di manipolare i suoni. Sapevo che mi ero bloccato a causa di una lotta contro il me-stesso-sabotatore (lotta impari, si sa) e che sarei riuscito a far funzionare di nuovo questa serratura arrugginita cambiando completamente il mio approccio, riscoprendo il motivo per cui da sempre ho messo le mani su uno strumento. La ragione è la più semplice di tutte: la musica mi fa stare bene. Inoltre mi è tornata la voglia e l’urgenza di scrivere e produrre canzoni che ho voglia di ascoltare.
Come ho scritto più volte nelle ultime settimane “La vita nel frattempo” è il titolo del mio nuovo disco e andrò avanti a raccontarlo in anteprima ancora per un po’ di tempo. Intanto però, dato che - come avrai capito - non sono un grande fan degli ascolti veloci e distratti, ho pensato di dare a questo disco innanzi tutto una forma fisica in vinile e su carta (con codice per scaricare la versione hi-fi digitale). Da oggi è attivo il PRE-ORDER de “La vita nel frattempo”, che per me è una specie di versione alternativa al crowdfunding con un intento simile, ovvero quello di creare un modello economico più sostenibile per noi musicisti.
Quindi, se non sei qui per caso e vuoi sostenere la mia musica, trovi tutto qui: https://labellascheggia.bigcartel.com/product/giuliano-dottori-la-vita-nel-frattempo